Nel quinto appuntamento del ciclo “Approfondimenti di finanza – Scuola d’impresa” dell’Unione Industriali di Varese si è parlato del rapporto banca-impresa e del futuro da individuare nel piano industriale.
I numeri dicono che dal 2011 a fine 2015 gli impieghi in Italia sono diminuiti di 115 miliardi e che le sofferenze lorde sono più che raddoppiate rispetto al 2009. Oggi siamo a quasi 190 miliardi, quando fino a sei anni fa i livelli erano fermi a meno di 60 miliardi. Da qui la discesa anche dei prestiti concessi alle imprese che a giugno 2011 ammontavano a più di 1.000 miliardi e che a fine dell’anno scorso erano fermi a 881 miliardi.
E il credit crunch, contenuto nei numeri elaborati da KPMG: migliorare qualità e tempestività delle informazioni fornite alle banche, prestare attenzione ai propri indici finanziari che impattano sui “rating”, aumentare il livello di patrimonializzazione, migliorare i sistemi di monitoraggio e controllo a breve, ma anche a lungo termine attraverso i business plan, considerare forme alternative di finanziamento rispetto al classico credito bancario; questi i suggerimenti forniti agli imprenditori dagli esperti.
“Il livello del dettaglio delle informazioni che le imprese devono fornire alle banche – spiega Dario Arban, Partner di KPMG Advisory – non ha paragoni rispetto al passato. Far transitare il rapporto che le aziende hanno con il sistema bancario solo attraverso il bilancio di fine anno è impensabile e troppo rischioso. L’obiettivo di un imprenditore deve essere quello di far capire alla propria banca quale sia l’evoluzione del proprio business, quali siano i progetti in campo, quale sia il vero valore dell’azienda. Tutto ciò è possibile comunicarlo solo attraverso la redazione di un buon piano industriale, che vale più di mille brochure, anche in termini di immagine e di brand”.
Quando un’impresa deve redigere un piano industriale? La risposta degli esperti di KPMG è “sempre”: “D’altronde – continua Arban – se è cambiato il modo con cui la banca giudica l’impresa, non può, allo stesso tempo, che cambiare il modo con cui l’impresa si sottopone al giudizio dalla banca”.
“Seppur ogni caso sia differente e richieda un livello di personalizzazione elevato, l’approccio metodologico di redazione di un buon piano industriale è ormai consolidato e condizionato dalla storia e dalla prassi di mercato creatasi negli ultimi anni”, spiegano gli esperti di KPMG. E dunque: il piano deve contenere analisi di contesto e di diagnostica in grado di raccontare e descrivere per numeri il mercato di riferimento dell’azienda e il posizionamento rispetto ai competitor, i punti di forza che hanno permesso all’impresa di superare la crisi, una chiara strategia di crescita, la presentazione dei risultati ottenuti, ma soprattutto, una programmazione chiara di ciò che vuol fare l’azienda.
Per esempio, un’impresa che si rivolge ad una banca per finanziare la propria stabilizzazione deve presentarsi con un piano industriale che indichi chiaramente la ricerca di marginalità e utile, i profitti a tendere, un progetto di contenimento e controllo dei costi, un progetto di gestione dei rapporti con i fornitori, oltre che con le banche. Dall’altra parte, un’azienda, che si presenta allo sportello per farsi finanziare il proprio sviluppo dovrà puntare su informazioni che mettano in luce il vantaggio competitivo sostenibile, i nuovi prodotti da sviluppare, l’efficienza e la produttività, la capacità di attrarre capitali.
Di tutto questo è convinto anche Marco Crespi, Responsabile Area Finanza e Agevolazioni industriali dell’Unione Industriali: “Il business plan è in grado, più che in passato, di favorire il buon esito delle progettualità di affidamento e di assicurare alle imprese non solo un miglior accesso al credito, ma anche la possibilità di approdare a nuove forme di finanziamento che sempre più si stanno facendo strada in Italia e in Europa. Mi riferisco alle alternative rappresentate dai minibond, dal venture capital e, perché no, dalla quotazione in Borsa”.