Una Pripyat del tessile, una Chernobyl della manifattura italiana. Le foto di un ex cotonificio piemontese pubblicate recentemente sulla pagina Facebook “Il sottosuolo di Genova e oltre. Ricerca e Studio” hanno attirato l’attenzione di tanti addetti ai lavori in tutta Italia. Come ad esempio l’ex presidente di Pratotrade Sandro Ciardi che le ha rilanciate e condivise aprendo un dibattito nel distretto.
Negli scatti di Luciano Rosselli raccolti dagli appassionati gestori di una pagina che racconta con le immagini quello che l’occhio umano non può vedere c’è tutto il destino di una manifattura immensa bloccata dal 1990: inquinamento delle falde e dei corsi d’acqua l’accusa grave che pesa sul passato più recente dell’azienda.
Non viene mai citato il nome del cotonificio ma tutti gli indizi portano al Losa di Robassomero, che ha cessato l’attività da trenta anni e che è stato definitivamente bloccato con un sequestro preventivo voluto da un giudice di Torino nel 2013. Il materiale stoccato nei grandi spazi della fabbrica ha infatti provocato un inquinamento per il quale sono stati denunciati gli ex proprietari del cotonoficio.
Ma ad impressionare è la quantità di materiale, di macchinari, di laboratori e di accessori che è rimasto bloccato nel tempo, come cristallizzato nel momento stesso in cui fu decisa la fine dell’attività, proprio come nelle tante immagini della città vicina alla centrale atomica di Chernobyl abbandonata in poche ore dopo lo scoppio del reattore.
Dalle penne appoggiate ai fogli degli ordini alle rocche di filato, dagli schedari ancora aperti nel punto dell’ultima ricerca di un documento alle forbici utilizzate per tagliare l’ultimo campione: il viaggio attraverso le tante foto pubblicate dagli appassionati ricercatori, specializzati in speleologia, archeologia sotterranea, documentazione e fotografia, fa emergere una realtà ignorata da molti e fa nascere la sensazione che nessuno, nemmeno gli stessi dipendenti o i proprietari, si aspettassero di non rientrare in azienda il giorno dopo.
Recuperare i macchinari e portarli in un museo, raccontare la storia del cotonificio, far commentare il tutto dagli esperti di archeologia industriale: queste alcune delle proposte emerse dal dibattito su Facebook, tanto nelle pagine personali di chi ha condiviso le foto sia nella pagina originaria, seguita da oltre 33.000 persone.
Al di là di tutto rimane l’affascinate malinconia di un luogo una volta pieno di vita ed ora associato all’abbandono e all’inquinamento: una sorta di simulacro di una produzione ormai lontana e di un lavoro ormai perso. Per sempre.